'ndrangheta, condanne definitive per i Catanzariti e Scarcella

Tredici anni per il braccio destro del clan Barbaro Papalia, Agostino Catanzariti, 7 anni a Scarcella. Riconosciuta l'associazione mafiosa.

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BUCCINASCO – Agostino Catanzariti, 72 anni, è ai domiciliari da metà marzo, da quando i carabinieri di Buccinasco lo hanno arrestato per scontare una pena residua. Il braccio destro dei Papalia è accusato di associazione mafiosa, estorsione, falsa testimonianza aggravata e spaccio, tutti reati commessi tra il 2012 e il 2014. Il suo nome, quello del figlio Saverio, 47 anni, dell’amico Flavio Scarcella di Corsico, 48 anni, e dell’uomo di fiducia Giuseppe Mesiti, nato a Locri, 32 anni, erano finiti nell’operazione Platino (2014) che ha fatto luce sulle penetrazioni mafiose e sulla gestione feroce della ‘ndrangheta in diverse attività milanesi, una tra tutte i servizi di security nei locali.

La condanna definitiva dopo un processo travagliato

La prima condanna arriva il 17 dicembre 2014, quando i Catanzariti e Scarcella vengono ritenuti responsabili di associazione a delinquere di stampo mafioso e una serie di altri reati, tra cui droga ed estorsioni, di cui la cosca Barbaro Papalia era specialista. Condanne pesanti, nel 2014: 14 anni ad Agostino, otto a Saverio, sette a Scarcella. Il colpo di scena arriva un anno dopo, con la sentenza del 25 novembre che assolve dal reato di associazione perché “il fatto non sussiste”, dimezzando la pena per tutti gli imputati. Ma l’associazione di stampo mafioso c’è e ne è convinto il procuratore generale che ricorre in Cassazione. I giudici gli danno ragione: la sentenza di secondo grado è annullata e si rinvia a una Corte d’appello bis per un nuovo giudizio e la rideterminazione della pena.

Con la sentenza del 19 dicembre 2018 viene di nuovo accertata l’associazione mafiosa e gli anni per Catanzariti senior tornano 13 e 8 mesi, otto anni per Saverio, sette per Scarcella. Si torna in Cassazione che oggi mette la parola fine alla vicenda giudiziaria: confermata la condanna per Agostino e Scarcella, mentre Saverio dovrà attendere un altro ricalcolo che terrà conto della continuità dei reati. Una sentenza che certifica l’associazione di stampo mafioso, i metodi intimidatori usati dagli imputati e la rivendicazione orgogliosa dell’appartenenza mafiosa che ostentavano per ottenere l’egemonia delle attività. Perché il vincolo mafioso rimane, non cambia forma, anzi, ne moltiplica le metastasi.

L'attività di Catanzariti ricostruite nella sentenza

Che Agostino Catanzariti fosse un personaggio di rilievo nella cosca dei Barbaro Papalia era chiaro da tempo, da quando uscito dal carcere nel 2009 e poi agli arresti domiciliari fino al 2011 ha tenuto le redini, imbastito affari e disposto ordini per sostenere gli affiliati finiti in carcere e le loro famiglie. Fedelissimo al clan, aveva la dote di Vangelo, Catanzariti, ma quando le sue intercettazioni, in cui raccontava omicidi e sequestri, hanno incastrato i boss facendoli finire in carcere, è diventato nell’ambiente mafioso “un ubriacone che non sapeva ciò che diceva”. Eppure era stato proprio Catanzariti il protagonista del cambio del “settore operativo” della cosca, passando dai non più redditizi appalti del movimento terra alla gestione dei locali notturni.

Il nuovo business della security in locali di Milano, Rozzano e Corsico

La difesa degli imputati ci aveva provato a dire che erano trascorsi 20 anni dagli affari d’oro dei Barbaro e Papalia, che non poteva esserci un legame così forte, persino che i cognomi erano diversi, a sottolineare la mancanza di legami di parentela. Ma non è solo il sangue che crea legami tra i mafiosi e Catanzariti, sebbene giudicato poi in modo negativo, aveva fiducia e mezzi per poter ricoprire il ruolo di vertice nella consorteria, almeno quando i boss erano dietro le sbarre. Per gli affari Catanzariti si “avvaleva del determinante contributo del figlio Saverio e di Scarcella, soprattutto per la gestione della security in locali di Milano, Rozzano e Corsico, ossia nella stessa zona in cui aveva storicamento operato il clan, ponendosi in assoluta continuità con essa, così da riuscire ad affermare la propria supremazia anche rispetto ad altre importanti cosche operanti nel medesimo settore, come quella della famiglia Flachi”, si legge nelle 48 pagine della sentenza.

Dalla sentenza: “presenta tutte le caratteristiche tipiche dell’aggregato mafioso"

Dalla ‘ndrangheta non si esce solo perché si finisce in carcere, anzi, aderendo alla cosca c’è la consapevolezza del rischio di finirci, dietro le sbarre, anche per lungo tempo, anche tutta la vita. Eppure Catanzariti, “assodata la pregressa appartenenza all’associazione mafiosa, non ha mai esternato un comportamento dimostrativo del suo recesso volontario al clan e aveva, al contrario, fornito prove di continuità, con la giammai rinnegata dote del vangelo a lui attribuita”. La ‘ndrangheta è un filo spesso tra Lombardia e Calabria e “presenta tutte le caratteristiche tipiche dell’aggregato mafioso – ancora dalla sentenza –, dal momento che gli aderenti si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associaciativo e della condizione di omertà. E il reato di associazione è riferibile anche a piccole organizzazioni”. La ‘ndrangheta esiste. E resiste.

Francesca Grillo

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