Mafia, i legami dei carcagnusi di Catania al Nord

Nell'operazione della Guardia di Finanza messi i sigilli anche ad un'azienda di Buccinasco

Mafia, i legami dei carcagnusi di Catania al Nord
Pubblicato:
Aggiornato:

Mafia, i legami dei carcagnusi di Catania al Nord.

Mafia, i legami dei carcagnusi di Catania al Nord

BUCCINASCO – Li chiamano i carcagnusi. Vuol dire gente di strada, grezza. Sono i Mazzei di Lineri, frazione di Mustarjancu, come chiamano i siciliani Misterbianco, paese da 50mila abitanti al confine con Catania, là dove le stradine si fanno piccole, coi marciapiedi occupati dai banchetti dei meloni lunghi gialli, dalle case basse coi panni stesi sulla strada e con le macellerie di carne di cavaddu a ogni angolo.

Un catanese tra i palermitani

Era il territorio di Santo Mazzei, 65 anni, fatto uomo d’onore direttamente da Leoluca Bagarella, cognato di Totò Riina (ha sposato la sorella del boss). Un uomo di fiducia per i Corleonesi di Cosa Nostra, esperto in intimidazioni, minacce, e omicidi, con i colpi di pistola alla nuca. Bagarella lo ha messo sotto l’ala dei Corleonesi nel 1992, dopo la strage di Capaci. Un catanese tra le fila dei palermitani ha fatto storcere il naso ai fedelissimi, ma a Bagarella serviva una pedina, meglio se capace di tutto, anche di organizzare attentati piazzando bombe nei musei, “per dare un segno della nostra presenza, in quegli anni lo Stato ci stava massacrando, in tutti i sensi, con il 41bis e con Pianosa – il carcere dell’isola toscana dove venivano rinchiusi i mafiosi, ndr –, dove picchiavano maledettamente”, dicevano i pentiti.

Il ruolo di Santo Mazzei

Andava da Catania a Torino al volante di una Fiat Tempra per procurarsi i candelotti di dinamite, poi con i sodali programmava “atti dimostrativi, perché dopo le stragi ci fu una repressione talmente forte che, in poche parole, ci mancò il respiro, diciamo, ai gruppi criminali”, diceva Mazzei, ricordando quel tentativo di creare il panico piazzando un proiettile nel giardino di Boboli, a Palazzo Pitti. Mazzei aveva poi chiamato un giornale per rivendicare l’atto, ma parlò in dialetto così stretto che nessuno capì nulla e il proiettile fu trovato solo tempo dopo. Mazzei era a tutti gli effetti uomo dei Corleonesi, “ostile inizialmente ai Santapaola, era stato combinato in Cosa Nostra su raccomandazione e diretto intervento di Riina e Bagarella, i quali convinsero i catanesi che sarebbe tornato utile all’organizzazione”. Uomo di onore, famiglia di onore.

Sebastiano Mazzeo

Uno dei nipoti di Santo, Sebastiano Mazzeo (in realtà Mazzei, ma il cognome fu sbagliato all’anagrafe), appena ventenne, sparì nel nulla da pentito. Lo chiamavano il baby killer, capace di sparare già a 14 anni. Diciotto anni dopo il caso di lupara bianca (era la fine degli anni Ottanta), furono arrestate la madre e la sorella (condannate all’ergastolo, poi assolte in appello) che per gli inquirenti avrebbero consegnato Sebastiano nelle mani dei sicari, accompagnando i killer al rifugio dove si nascondeva il ragazzo. Lo hanno detto loro, i killer, raccontando di aver poi ucciso il giovane mutilandolo con una mannaia, “perché aveva iniziato a parlare”. Quando Santo Mazzei è finito al 41bis, il comando è passato al figlio Sebastiano, detto Nuccio. Lo hanno trovato nell’aprile del 2015 rintanato in una villa a Ragalna, ai piedi dell’Etna, con la moglie. Si era fatto crescere barba e capelli, per provare a passare inosservato. Ci è riuscito per quasi un anno, dopo essere sfuggito al blitz Scarface della guardia di finanza, poi la Squadra mobile di Catania lo ha trovato, dopo mesi di indagini guidate dall’allora questore di Catania Marcello Cardona (ora a Milano). Nuccio era ricercato per associazione mafiosa, intestazione fittizia di beni e traffico di droga. Per comunicare con i suoi picciotti usava una dozzina di telefoni diversi. Sotto il materasso, teneva un’ascia.

La base a Catania

Feroci, senza paura. I Mazzei creano il proprio fortino nel quartiere popolare di San Cristoforo, nelle viscere di Catania. Si affidavano a sodali capaci di tutto, fedeli. Fedelissimi. Tanto che quando si trovano sul banco degli imputati non tentano neanche di prendere le distanze dalla mafia, anzi, ne rivendicano l’appartenenza con orgoglio. Come William Alfonso Cerbo, 36 anni, il Tony Montana di Catania, come amava farsi chiamare. L’emulazione per il gangster protagonista di Scarface passava da un lusso ostentato, dalla voglia di assomigliargli anche fisicamente. Passava da quel trono con i braccioli dorati che si era fatto costruire uguale a quello del protagonista del film, con le iniziali ricamate. Passava dal progetto di una villa come quella di Montana, con le colonne alte e le statue, in piedi solo a metà, incompiuta. Un vero imprenditore, quello che serviva ai Mazzei per acquisire società e beni da milioni di euro. Cerbo è finito ai domiciliari nel 2014, per estorsione, trasferimento fraudolento di valori, bancarotta e associazione mafiosa. Aveva dichiarato 80mila euro in 14 anni al fisco, ma i suoi redditi superavano abbondantemente i 2 milioni di euro. A metterlo in trappola, proprio quella voglia di ostentare, di far vedere una vita dedicata al lusso. Un tenore di vita che non poteva certo corrispondere alle dichiarazioni fasulle.

L'operazione delle Fiamme Gialle

La maxi operazione della guardia di finanza di Catania, in collaborazione con il Servizio Centrale  di Investigazione sulla Criminalità Organizzata di Roma, gli ha sequestrato tutto, per un valore di oltre 32 milioni di euro: 28 immobili, tra cui ville, parchi, appartamenti, terreni e otto società commerciali, tra Roma, Ragusa, Catania, Castelfranco Veneto, Udine. Una anche a Buccinasco. Qui, c’era la Ristofar, un’azienda di ristorazione con quote intestate ad Angelo Finocchiaro: una ditta fantasma in fallimento. Secondo gli inquirenti, sarebbe solo la punta di un iceberg sotto cui si nascondono gli affari importati da giù, grazie a legami fortissimi con il Nord. Segnale che arriva anche dalla richiesta di trasferimento dal carcere che Cerbo ha avanzato: vuole trascorrere la detenzione su, a Milano. “Una mafia che viene percepita poco – dicono gli inquirenti – perché capace di infiltrarsi in modo subdolo con piglio imprenditoriale. Ma i clan conquistano, esportano, creano agganci, acquisiscono imprese e fanno sentire silenziosamente la propria presenza”. A 1.343 chilometri di distanza.

Francesca Grillo

TORNA ALLA HOME PER LE ALTRE NOTIZIE DI OGGI

Seguici sui nostri canali