20,52, domenica sera: “morto kobe bryant”
I miti ci insegnano... Il saluto del Giornale dei Navigli ad una leggenda del basket.
20,52, domenica sera: “morto kobe bryant”. (dal numero cartaceo di questa settimana)
20,52, domenica sera: “morto kobe bryant”
CORSICO - 20,52, domenica 27 gennaio, ricordo ancora l’orario esatto. Il telefono emette il solito suono che tante e tante volte rimbalza nel mio cervello ogni santa ora del giorno. È una notifica di WhatsApp. Lo guardo molto distrattamente (avevo da poco iniziato a cenare). Proviene dal gruppo di coordinamento, grazie al quale vi diamo da leggere circa mezzo milione di pagine al mese: il nostro amato sito (e odiato, per un certo verso, dato che mi ha aggiunto tanto e tanto lavoro e tolta tanta, ma tanta, vita privata). Abbiamo da poco pubblicato un pezzo su un brutto caso di razzismo sui nostri campi da calcio.
20,52, domenica sera.
La mia mente pensa già che sia un appunto su qualche mio refuso nell'introduzione o un errore di condivisione, una foto che non si visualizza, qualcosa del genere. Il messaggio è invece secco quanto drammatico, e non credo che chi l’ha scritto intendesse riferirmelo per “fini pubblicativi”. Probabilmente già immaginava quanto una notizia del genere potesse devastarmi.
20,52, messaggio secco: “morto kobe bryant”.
Inizialmente il mio cervello non riesce a collegare ciò che i miei occhi leggono ad un volto, una persona. E non perché possa non conoscerlo o perché abbia qualche problema di salute. Semplicemente il mio cervello non accetta un “input” del genere. Ci pensano allora i “cervelli supplementari” di cui siamo dotati: pelle d’oca, di quella che non provavo da tempo, che pare quasi strappi la pelle delle braccia. Lo stomaco si chiude di botto, con la povera pizza “a metà strada” che si chiede cosa debba fare.
Poi il cervello parte. Ma non si rassegna: Google, immediatamente. “Avrà sbagliato nome, non può essere”. Già, non può essere... Ma no, è così. Dannazione.
Ciò che scrivo d’impulso in risposta sulla chat non lo riscrivo a voi, ma quegli istanti successivi sono come un buco nero. È il cuore ora a non accettare la cosa. Le emozioni sono troppe e confuse, e io ho un grande problema a gestire questi picchi emozionali. Come sempre cerco di farmi piccolo piccolo, chiuso in me stesso, e parto con il pilota automatico razionale: abbiamo una notizia, mettiamola. Non importa che il nostro sito sia “milano-centrico”. Questa cosa va detta: “morto kobe bryant”.
“Simo, puoi pensarci tu?” Sì, lo ammetto, mi sono “rinchiuso nelle mie stanze”. Proprio non riesco a gestirle ancora le emozioni troppo forti... “solo due righe per il lancio, poi completo io”. Cerco informazioni, perché mi sembra l’unica cosa da poter fare quando le emozioni prevalgono: cercare risposte razionali a qualcosa che di razionale ha ben poco.
E così passo due ore tra skytg24, skysport24, qualunque sito di informazione nazionale o americano, i social network. Il mio cuore aspetta la smentita, tutto il mio cuore. No, non può essere! Ma la smentita mai arriverà…
Nel frattempo alterno frasi semi-sconclusionate alla mia compagna, sconvolta anche lei pur non seguendo la pallacanestro (ma come si fa a non conoscere Kobe?), a momenti di apatia totale. Fisso i vari schermi con gli occhi lucidi, sento ma non ascolto, la pelle d’oca rimane costante ad accompagnarmi per ore. Una sola frase mi rimbomba dentro: “morto kobe bryant”.
Una famiglia chiamata pallacanestro
Ora, non è facile da spiegare la cosa, specie per chi non mastica la pallacanestro. Ma credo che ognuno di voi possa aver provato una sensazione del genere per personaggi o conoscenti, in altri ambiti. Il mio stato d’animo è reale, crudo: mi sento svuotato come per la perdita di un amico caro. La pallacanestro è una piccola (se rapportata al calcio, in Italia) grande famiglia. Chi ama questo sport lo vive con una passione davvero unica (ovvio, sono di parte, ma sono anche abbastanza bravo ad osservare la realtà). Una volta compreso che anche “l’altro” è un baskettaro credo scatti sempre qualcosa: anche “tu” sei parte di questa famiglia, che non di solo calcio vive. Si diventa complici in un certo senso, anche se magari avversari sportivamente. La perdita di una delle più grandi leggende della pallacanestro di tutti i tempi, a soli 41 anni poi e insieme alla sua amata figlia, non può che colpire nel profondo tutti quelli (ma non solo) che amano questo sport.
Un rapporto complicato...
Chi vi scrive ha sempre avuto un rapporto conflittuale con il povero Kobe (tanto che in queste ore vivo anche una sorta di senso di colpa, del tipo “avrei dovuto fare di più per lui”. Ma cosa, mi rispondo poi). La nascita di questa meravigliosa stella è coincisa con gli ultimi anni del più grande di sempre. Io sono cresciuto a pane e Michael Jordan. Questo ragazzotto, anche un po’ sbruffonciello, che cercava di imitare in tutti i modi il mio mito, l’ho sempre guardato di traverso. Record di punti, partite di dominio assoluto, ma io ero una “vedovella” di Jordan e per molti anni non ho cambiato la mia opinione su di lui. Più di recente, negli ultimi anni, prima del ritiro dal gioco, ho imparato a conoscerlo meglio, apprezzarlo per quello che è: Kobe. Non un’imitazione mal riuscita di Michael. La sua lettera di addio al gioco (che gli è anche valsa un Oscar) mi ha toccato profondamente. Ho capito quanta abnegazione, passione, tenacia, devozione e amore ci fossero in lui nei confronti di questo splendido gioco. Ho cominciato anche a trovarlo simpatico, scoprendo poi la sua infanzia in Italia, tra Rieti, Reggio Emilia e Pistoia, grazie anche alle sue interviste in italiano con quel simpatico accento che mai ti aspetteresti da un mito degli States.
Parole che aprono in cuore
Le sue parole sono state linfa vitale, esempio per tutte le persone che si approcciano con passione a qualcosa, non solo alla pallacanestro. E allora quell’esempio ho iniziato a seguirlo, senza minimamente sperare di eguagliarlo in termini quantitativi e qualitativi. Ma sono certo che qualcosa di lui in me sia rimasta. Ora lo piango, ancora a 72 ore dalla notizia, in ogni filmato in cui è impossibile non imbattersi (sì, la profilazione di Google e dei social è decisamente spietata).
Lascio a voi lettori solo un estratto di quella famosa lettera, ma vi invito a cercarla nella versione integrale. È una lettera d’amore al basket, ma potrebbe essere declinata in ogni dove.
“Hai chiesto il mio impegno
ti ho dato il mio cuore
perché c’era tanto altro dietro.
Ho giocato nonostante il sudore e il dolore
non per vincere una sfida
ma perché TU mi avevi chiamato.
Ho fatto tutto per TE
perché è quello che fai
quando qualcuno ti fa sentire vivo
come tu mi hai fatto sentire.[…]
Questa stagione è tutto quello che mi resta.
Il mio cuore può sopportare la battaglia
la mia mente può gestire la fatica
ma il mio corpo sa che è ora di dire addio.E va bene.
Sono pronto a lasciarti andare.
E voglio che tu lo sappia
così entrambi possiamo assaporare ogni momento che ci rimane insieme.
I momenti buoni e quelli meno buoni.Ci siamo dati entrambi tutto quello che avevamo.
E sappiamo entrambi, indipendentemente da cosa farò,
che rimarrò per sempre quel bambino
con i calzini arrotolati
bidone della spazzatura nell’angolo
5 secondi da giocare.
Palla tra le mie mani.
5… 4… 3… 2… 1…Ti amerò per sempre,
Kobe"
Grazie Kobe.
Andrea Demarchi
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