“Se dicessimo la verità”, un tuffo ai nostri cuori. A colloquio con una protagonista indiretta: Francesca
Uno spettacolo dove vengono raccontate le storie di chi ha combattuto e lotta contro la criminalità organizzata
E' andato in scena lo scorso venerdì a Corsico lo spettacolo “Se dicessimo la verità” con due spettacoli nella stessa giornata: uno riservato agli studenti nel corso della mattinata e uno invece alla sera aperto a tutti al Teatro Verdi.
“Se dicessimo la verità”: venerdì scorso al Teatro Verdi di Corsico
CORSICO - Uno spettacolo, quello andato in scena venerdì scorso al Teatro Verdi di Corsico - in mattinata per le scuole e in serata per tutti i cittadini – che è un vero tuffo al cuore per chi vi ha assistito.
Un vero tuffo ai cuori di chi era in sala
Bello, coinvolgente e fresco, nonostante il tema non sia dei più semplici da portare su un palco; senza quel rischio, per lo meno, di cadere nella mera retorica del ricordo dei “martiri” (che giustamente vanno ricordati, ma il semplice ricordo non è sufficiente) e senza dimenticare soprattutto che i vivi debbano ancora combattere ogni giorno contro il cancro delle mafie, presenti anche sul nostro territorio. Ma lo spettacolo è solo una parte di un progetto ben più ampio che ha coinvolto i nostri comuni.
Il progetto
Uno spettacolo, dove vengono raccontate le storie di chi ha combattuto e lotta contro la criminalità organizzata. Una serie di laboratori con gli studenti, per avvicinarli all’argomento e renderli parte attiva. Infine, un documentario su RaiPlay. “Se dicessimo la verità” è tutto questo.
Ideato e sviluppato da un team che si avvale di validissimi collaboratori e volontari. È “Cco”, Crisi Come Opportunità, l’associazione che sta dietro a questo enorme progetto di legalità. Un gruppo formato da Giulia Minoli (che è anche autrice dello spettacolo), Giulia Agostini, Noemi Caputo, Francesca Elia e Benedetta Genisio. L'associazione si occupa di laboratori di formazione e sensibilizzazione di giovani e comunità attraverso l’uso dell’arte, in tutte le sue forme, compresa quella del teatro.
Sul palco bravissimi attori interpretano le storie di chi lotta
In scena sono andati bravissimi attori che hanno interpretato le storie di chi lotta. Uno spettacolo che colpisce dentro, arriva dritto a chi lo guarda. Si narrano storie come quella di Paolo Bocedi, uno dei primi imprenditori in Lombardia a ribellarsi alla mafia, fondatore di Sos Impresa nel 1991, oggi Sos Italia Libera, associazione di imprenditori contro usura ed estorsioni (presente anche alla serata del 14 aprile a Corsico); Deborah Cartisano, figlia del fotografo di Bovalino Lollò sequestrato e ucciso dalla ‘ndrangheta; Cortocircuito, associazione antimafia nata come giornalino indipendente finita nel mirino della mafia per le inchieste scomode.
E ancora, l’imprenditore Gaetano Saffioti, testimone di giustizia; Maria Stefanelli, prima donna testimone contro la ‘ndrangheta; Stefania Pellegrini, professoressa impegnata nella ricerca e lotta alla mafia. E anche la “nostra” Francesca Grillo, da diversi anni ormai cronista sul territorio e impegnata a raccontare le nostre storie di mafia.
Con linguaggio semplice, interazione col pubblico e grazie a una perfetta recitazione degli attori e di un testo incisivo, “Se dicessimo la verità” mette in luce il fenomeno della criminalità organizzata sotto diversi aspetti, illustrando la capacità delle mafie di infiltrarsi, riciclare denaro, assoldare prestanomi e “uomini cerniera” che collegano i mafiosi alla società. Uno spettacolo che arriva dove serve, colpisce, costringe a riflettere e soprattutto a farsi tante domande.
Francesca questa volta si mette dall’altra parte della scrivania
Ringrazio Francesca Grillo per aver accettato questo mio invito: mettersi “dall’altra parte della scrivania” a rispondere ad alcune mie domande sulla sua esperienza come “cronista di guerra”, in quella che di fatto è una guerra vera e propria, alle mafie.
Sono sempre stato onorato di averla anche come nostra “penna” a raccontarci il territorio e non le ho mai nascosto di sentirmi quasi in soggezione di fronte al coraggio che mostra in ogni occasione, senza mai fare un passo indietro su certi temi, la criminalità organizzata prima di tutto (posso già sentire i suoi insulti a questa mia confessione pubblica, ma me ne assumerò il rischio).
Ecco la nostra breve chiacchierata con la “nostra” Francesca Grillo
Non è una novità per te passare da intervistante a intervistata; credo che già in passato ti sia accaduto. In questa situazione, però, ti sei ritrovata in una condizione del tutto “nuova”: essere interpretata da un’attrice su un palcoscenico. Un’attrice che, per l’appunto, ha messo in scena una intervista in cui tu racconti il tuo lavoro di cronista impegnata nella lotta alle mafie sul nostro territorio. Quali emozioni hai provato “vedendoti” e vedendo la tua storia su un palco?
D’istinto preoccupazione. Ho pensato che mettendo in luce ciò che mi è capitato e quello di cui mi occupo, chi difende i mafiosi (e purtroppo sono ancora tanti) possa trovare un nuovo obiettivo da colpire, aggiungendosi alle persone che già mal sopportano il mio lavoro. È durato un attimo, perché poi ho capito che far conoscere la mia storia, che è anche quella di tanti altri giornalisti che fanno il proprio lavoro, giornalisti-giornalisti come diceva Giancarlo Siani, sia una sorta di protezione, perché più persone hai al tuo fianco che ti sostengono più ti senti al sicuro. È una “scorta sociale”.
Lo spettacolo racconta diverse testimonianze di persone che non si sono voltate a guardare altrove: donne e uomini che hanno tenuto la testa alta e sono andate avanti per la loro strada, dicendo un chiaro “no” a quelle dinamiche di indifferenza e omertà in cui le mafie ci sguazzano da sempre. La scena a te “dedicata” aveva come sottotesto: “Qualcuno lo deve fare”. E’ vero, qualcuno lo deve fare. Ma come fai a farlo?
Non mi sento speciale né eroica: è il mio lavoro e penso ci sia un solo modo per svolgerlo. Le persone per poter scegliere da che parte stare devono sapere, conoscere. Il nostro lavoro è questo: informarle, affinché possano compiere consapevolmente le loro scelte. Qualcuno, appunto, lo deve fare.
Di certo è bello vedere e sentire di non essere “da soli” a combattere questa piaga che dilaga anche sul nostro territorio. Non hai mai paura? Come la affronti e come non permetti ad essa di prendere il sopravvento?
Un giornalista una volta mi ha detto che bisogna avere paura, perché non averla è da incoscienti. Sentire la paura e farlo comunque. Bisogna prestare attenzione, non esporsi troppo. La mia vita personale e famigliare, gli affetti, li tengo più nascosti possibile. Quello che mi ha fatto più male in questi anni è stata l’indifferenza di tanti. Oltre alle minacce dei mafiosi, ai chiodi piantati nelle gomme, agli sputi in faccia, al dito puntato gridandomi “smettila di scrivere o fai una brutta fine”, agli sguardi davanti ai bar, ai messaggi sui social. Quando ho visto l’indifferenza di molti nel momento in cui mi hanno urlato addosso, davanti a un locale affollato a Corsico, mi ha fatto male. Forse più male delle minacce dei mafiosi.
Qual è, secondo la tua opinione sul campo, lo stato di salute sul contrasto alle mafie, da parte degli Enti, della società civile e dei singoli cittadini? C’è maggiore consapevolezza e impegno oggi o stiamo tornando indietro?
Nelle carte delle inchieste per mafia gli inquirenti hanno scritto una cosa impressionante. La ‘ndrangheta ha potuto penetrare le nostre città grazie a una “assai affievolita resistenza civica”. Erano gli anni Novanta, inizi Duemila. Ora c’è più sensibilità, grazie a politici con la schiena dritta, associazioni che lottano (Libera, Libera Masseria e tante altre), ma soprattutto grazie ai cittadini che sono stanchi dell’illegalità e si fanno parte attiva nella lotta, partecipano, sono più consapevoli e hanno voglia di fare la propria parte. Certo, ci sono ancora persone che dicono che quando c’era la mafia si stava meglio. Forse dovrebbero tornare nel tombino di muffa da cui sono usciti.
Il dibattito con gli studenti post spettacolo: cosa stiamo sbagliando noi adulti?
Gli studenti dell’istituto Falcone-Righi ascoltano in silenzio. Seguono lo spettacolo, senza distrazioni. Riflettono. I bravissimi attori di “Se dicessimo la verità” li coinvolgono, interagiscono, vogliono indagare nei loro pensieri. Due spettacoli nella mattinata del 14 aprile: il primo con gli studenti del liceo Vico, poi con quelli del Falcone. Il progetto li ha coinvolti anche nella realizzazione di un interessante podcast sulla legalità (in collaborazione con Radio Popolare).
Un gioco degli attori con un risultato che fa pensare
Durante lo spettacolo viene fatto un gioco dagli attori: “Mettiamo caso: scoppia un incendio e vedete bene-bene due persone che scappano su una moto. Cosa fate? Denunciate?”. Pochi sì. Non denunciate? Alcune mani alzate. Altrettante per la risposta “non lo so”. Ma molte, troppe, per rispondere “non me ne frega nulla”. Fanno impressione e costringono a riflettere su cosa noi adulti stiamo sbagliando, in cosa stiamo fallendo.
Ma durante il dibattito qualcosa cambia
Gli studenti si mostrano timidi all’inizio, poi le curiosità sono tante, così come le domande. “I miei genitori me lo dicevano che c’era la mafia qui, ma non pensavo ancora oggi”, si stupiscono. Poi vogliono sapere dov’è, cosa fa, come si comporta. Chi sono i mafiosi e come lavorano, li vogliono evitare. Si interrogano sui testi delle canzoni, capiscono che i cantanti trap quando inneggiano l’illegalità compiono un atto di insensata ribellione e finzione, così come molti aspetti delle serie tv dove si mostra il fenomeno mafioso ricco e potente, senza considerare l’altra faccia, cioè che chi è dentro la criminalità organizzata può uscirne solo con coraggio, ribellandosi, oppure dentro una bara.
Il racconto illuminante di un ragazzo
I ragazzi dapprima silenziosi esplodono in curiosità e voglia di sapere. Comprendono che la mafia può fare paura, ma che uniti si combatte più forti. E poi, il racconto di un ragazzino illumina il teatro. “Ho partecipato a una manifestazione a Buccinasco, siamo passati in corteo sotto la casa dei mafiosi. Avevano abbassato le tapparelle. Forse erano loro ad aver paura di noi”.