In questi giorni, la vicenda dei giovani aggressori di corso Como scuote non solo Milano, ma la coscienza collettiva. Come psicologo, ciò che colpisce non è soltanto la brutalità del gesto,un pestaggio e un accoltellamento che hanno cambiato per sempre la vita di un ragazzo di 22 anni, ma il fatto che i protagonisti fossero considerati, almeno fino a ieri, “ragazzi normali”. Studenti, figli di famiglie senza particolari problemi, saluti educati ai vicini. Eppure, dietro questa normalità apparente, si muoveva un gruppo che cercava un’identità attraverso la violenza, come se il gesto estremo potesse finalmente creare un senso di appartenenza o di riconoscimento.
La deriva del gruppo e la perdita della percezione morale
Il dettaglio emerso dagli atti — la frase «la prossima volta ci bardiamo» — racconta la freddezza di un pensiero non impulsivo, ma pianificato. È qui che si manifesta l’aspetto psicologico più inquietante: la distanza emotiva dal disvalore delle proprie azioni. Il questore Megale lo ha descritto con precisione, parlando di ragazzi che “non hanno percezione del disvalore del gesto”. Questo non significa giustificarli, ma comprendere che la loro bussola morale sembra essersi scollegata dal mondo reale. In un’età in cui il gruppo diventa spesso più influente della famiglia, la violenza può trasformarsi in un linguaggio condiviso, un modo per sentirsi forti, visibili, riconosciuti.
Un passato senza segnali evidenti, ma con un’educazione emotiva fragile
La loro storia personale non presenta segnali evidenti di una deriva criminale: un precedente per furto, un incidente in bici, una bomboletta di spray urticante. Episodi che, da soli, non definiscono un profilo pericoloso. E tuttavia, questi ragazzi hanno sviluppato nel tempo una sorta di anestesia emotiva. Sono cresciuti in oratori e quartieri tranquilli, ma hanno perso progressivamente la capacità di percepire l’altro come persona. In alcune dinamiche adolescenziali, il valore morale del gesto svanisce di fronte alla necessità di appartenenza o ai meccanismi di imitazione. La violenza non nasce nel vuoto: germoglia quando il dialogo emotivo si spegne.
Il difficile percorso della responsabilità e della consapevolezza
C’è poi l’elemento del pentimento dichiarato: Ahmed, uno dei ragazzi, ha affermato di non essersi reso conto della gravità della situazione e di voler scrivere una lettera di scuse. Quanto ci sia di autentico in queste parole sarà da valutare, ma da un punto di vista psicologico rappresenta comunque un primo passo verso la realtà. La vera sfida, per questi giovani, sarà imparare a confrontarsi con la colpa e con le proprie azioni senza rifugiarsi dietro il gruppo. Il sistema giudiziario farà la sua parte, ma la ricostruzione emotiva richiederà tempo, responsabilità e un lavoro profondo. Perché la domanda centrale resta: come è possibile che dei ragazzi così giovani non sentano il peso umano delle loro azioni? È da questa risposta che dipende la prevenzione del futuro.
Dott. Fabiano Foschini – Psicologo
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