Da Londra: "Personalmente ricorderò per sempre il 2020 come l’anno della guerra..."

Da Londra Deborah Berini ci racconta il primo e il nuovo lockdown.

Da Londra: "Personalmente ricorderò per sempre il 2020 come l’anno della guerra..."
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Da Londra: "Personalmente ricorderò per sempre il 2020 come l’anno della guerra..."

Da Londra: "Personalmente ricorderò per sempre il 2020 come l’anno della guerra..."

Come ogni guerra, anche questa è nata un po’ all’improvviso, inizialmente solo un lieve sentore nell’aria. Poi sono iniziate le file fuori dai supermercati e la scarsità di beni primari. La chiusura delle attività e delle scuole. Il crollo dell’economia, il confinamento domiciliare forzato e l’impossibilità di vedere i propri cari.

Soprattutto tanti morti. E, altrettanti, speranzosi sopravvissuti.

Ovviamente questa guerra è diversa da quelle che leggiamo sui libri di storia. Non ci sono grandi nazioni in lotta, bensì un nemico comune. È una guerra dove le battaglie, quelle vere, avvengono in ospedale e a spaventarti non sono gli spari, bensì i colpi di tosse. Non ci sono armi, ma noi stessi siamo mine vaganti. Potenzialmente letali verso chiunque si avvicini.

E le armature sono composte da visori, mascherine e guanti in lattice.

È una guerra fatta di videochiamate invece che lettere scritte a mano. È la guerra della nostra generazione, probabilmente l’evento storico più importante che segnerà il corso della mia vita e di chi, come me, è nato e vissuto in un periodo di relativa pace. Quest’anno il mondo è stato messo in ginocchio da un virus invisibile e noi abbiamo il dovere di essere le voci che lo ricorderanno.

Vivere a Londra durante il lockdown è stato un misto di paure diverse.

Io, mio fratello e un nostro amico, chiusi mesi interi in un appartamento troppo piccolo per tre. Noi e la paura per l’Italia, alimentata da racconti di amici e familiari. Noi e la paura di non poter tornare a casa. O meglio il timore di tornare e mettere a rischio i nostri cari e la paura, ben nascosta e scacciata, di non tornare e rischiare di non vederli mai più. Noi che ci sentiamo catapultati in un film apocalittico quando usciamo di casa e le strade sono vuote. Ci uniamo alle persone in fila fuori dal supermercato, per terra un segnale che richiede di mantenere la distanza di sicurezza, e quando entriamo scopriamo increduli che gli scaffali sono mezzi vuoti e ciò che prima davamo per scontato, oggi non lo è più.

Così è iniziata la nostra quarantena. Con la paura per gli altri. E poi per noi stessi.

Ricordo le colazioni passate a discutere le statistiche fornite dai telegiornali e il numero di contagi crescente, il costante lavarsi le mani e le mascherine cucite a mano. Ricordo anche, però, la capacità di nascondere la paura iniziale dietro la pasta fatta in casa, le partite interminabili a carte e le maratone di film. Dopo aver visto tutti gli Harry Potter e la saga di Star Wars, aver compiuto diversi tentativi nell’impresa di creare il panzerotto perfetto e aver rotto la tavola da gioco del Monopoly cadendoci sopra, siamo riusciti a confinare quella paura fuori dalla porta, insieme al resto del mondo.

Un mondo ormai diverso, diviso tra chi capisce la gravità della situazione e chi invece se ne frega.

Tra chi segue le norme di sicurezza imposte dal governo giudicando chi non lo fa, e chi invece esce di casa credendo fermamente che il virus sia un complotto. Esiste però un’altra categoria di persone creatasi durante questa pandemia: quelli che capiscono la gravità della situazione, ne sono terrorizzati, eppure apparentemente se ne fregano del rischio di morire. Dico apparentemente perché in realtà non se ne fregano affatto. Anzi, tutto l’opposto.

Tutti noi conosciamo il detto “Meglio un giorno da leone che cento da pecora”.

E tutti noi almeno una volta nella vita ci siamo ritrovati nella veridicità di queste parole, vantandoci, quasi gridando al mondo intero che noi, noi non ci accontentiamo. Noi vogliamo vivere appieno, anche se fosse solo per un giorno. Non ci rendiamo conto però che questa frase che pavoneggiavamo da guerrieri è la risposta alla domanda che oggi non ci tratteniamo dal rivolgere quasi con rabbia a coloro che vediamo passeggiare per strada, leggere su una panchina, andare in bicicletta.

Ma come fai non capire che devi stare a casa?

Ecco, forse non è che non lo capiscono Forse, coloro che vedi correre al parco o a prendere il sole in spiaggia, stanno semplicemente scegliendo di vivere quel maledetto giorno da leone. Prima del virus avremmo fatto carte false per poter oziare sul divano tutti i giorni, circondati da ogni comfort e aggeggio elettronico. In un’era in cui la tecnologia non ti permette di annoiarti, noi stiamo morendo di noia.

Oggi scegliamo il canto degli uccellini a Spotify, vedere un gruppo di amici a Netflix, andare a correre in un campo invece che allenarsi a casa. Scegliamo di rischiare la nostra vita (e quella degli altri) per una vita di qualità. Perché noi umani, purtroppo o per fortuna, scegliamo sempre di vivere, non di sopravvivere. Perché abbiamo bisogno del sole sulla pelle, di ritrovarci con il naso all’insù a guardare il cielo. Abbiamo bisogno della bellezza della natura, ma non quella vista da uno schermo. Abbiamo bisogno di nutrire gli occhi di bellezza che respira, di vedere un orizzonte sconfinato invece che quattro mura. Oggi più che mai capisco chi ama gli sport estremi, o le relazioni estreme. Oggi più che mai capisco i detenuti che cercano di evadere di prigione, i malati terminali che non si vogliono sottoporre a terapia.

Oggi più che mai, capisco che la paura di non vivere è più forte della paura di morire.

La voglia di vivere è così imponente che nell’era della libertà personale e di scelta, ci siamo adattati ad un mondo nuovo fatto di imposizioni sociali. Le attività hanno dovuto modificare il loro modo di vendere, animali domestici e piante sono i nuovi colleghi di lavoro e i più giovani non sapranno mai cosa vuol dire copiare dal compagno di banco. Eppure resistiamo e non ci arrendiamo. Ci facciamo piacere questa nuova normalità.

Eccetto che di normalità non si tratta.

Sentitevi fortunati quando vi dimenticate la mascherina a casa o quando di istinto la abbassate per parlare con qualcuno. Un lapsus. Un secondo di distrazione che accerta, però, di essere ancora legati al prima. Alla normalità, quella vera. Se potessi tornare indietro nel tempo e scegliere un giorno del 2020 da rivivere, sceglierei il giorno del mio compleanno. Avrei dovuto essere in viaggio su un treno sottomarino, diretta a visitare Amsterdam per la prima volta. Il viaggio, però, è stato annullato. Ho fatto un giro in centro con mio fratello e un nostro amico, preso un caffè, passeggiato per il parco. Niente di particolare, né tantomeno da voler rivivere. Due giorni e Londra è entrata in lockdown. E così il mio compleanno, fino allora poco degno di nota, è diventato speciale proprio perché normale. Quel giorno invece di aver preso per la prima volta un treno che attraversa il mare, ho preso per l’ultima volta l’autobus senza mascherina. Invece di visitare per la prima volta il museo di Van Gogh, sono entrata per l’ultima volta in un negozio senza dovermi igienizzare le mani.

Tutti sappiamo che le prime volte sono speciali, da ricordare.

I primi passi, il primo bacio, il primo viaggio. Ce le ricordiamo perché sono caratterizzate dalla scoperta del nuovo, l’emozione di fare qualcosa mai provato prima. La prima volta non si scorda mai. Questo virus, però, ha sconvolto ogni certezza e cambiato ogni prospettiva.

Quest’anno ho imparato che bisogna ricordare, ora più che mai, le ultime volte.

Quelle inaspettate, che diventano ultime proprio quando ormai sono già passate.

L’ultima volta che avete sorriso alla cassiera del supermercato o semplicemente bevuto dalla stessa bottiglietta di un vostro amico.

L’ultima volta che siete andati allo stadio o che vi siete ritrovati abbracciati a perfetti sconosciuti ad un concerto.

L’ultima volta che avete baciato vostra nonna senza il timore di farla ammalare, che avete abbracciato i vostri genitori all’aeroporto pensando che tanto sono solo poche ore di aereo e ci si rivede presto.

Oggi, all’inizio di una nuova quarantena

Non penso alle libertà perdute né alle nuove che mi verranno negate. Penso ai miei genitori a casa. Me li immagino cucinare, impastare e creare nuove torte, mio papà che segue alla lettera una video ricetta anche se deve mandare il video indietro mille volte. Me li immagino accoccolati sul divano a vedere la televisione, mia mamma in pigiama che sceglie un film e mio papà che si addormenta neanche il tempo di mettersi gli occhiali. Me li immagino nelle piccole cose, nel cercare di impegnare il tempo. Vedere il positivo nell’essere costretti a stare a casa nonostante non se lo possano permettere. Me li immagino ridere, litigare e poi ridere ancora, pensare a me e mio fratello e a quanto manchiamo ora più che mai. Me li immagino. Immagino. Perché non sono lì. E vorrei essere io quella che mangia le torte di papà e i tortellini in brodo di mamma, vorrei essere io a scegliere un film per tutti.

Vorrei essere io quella che li abbraccia per prima quando finalmente potremo abbracciarci di nuovo.

CronistaINLibertà
a cura di Renato Caporale

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