I vent’anni di Oriocenter: l’intervista al patron Percassi

Ha creduto in una folle impresa trasformatasi in un’eccellenza nazionale e internazionale.

I vent’anni di Oriocenter: l’intervista al patron Percassi
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I vent’anni di Oriocenter: l’intervista al patron Percassi.

I vent’anni di Oriocenter: l’intervista al patron Percassi

Più passano gli anni, più diventa complicato ritenere Oriocenter un “nonluogo”, come definì l’antropologo francese Marc Augé i grandi spazi utilizzati per scopi molteplici, stereotipati, anonimi e frequentati da gruppi di persone che non si relazionano tra loro. La fotografia dei centri commerciali, praticamente. Eppure Orio, in vent’anni, ha saputo costruirsi un’anima. Consumistica, certo, ma per certi versi anche sociale.

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Il successo più grande di Antonio Percassi

Lo dimostrano Giacomo e Rita, rispettivamente 83 e 75 anni, sposati da oltre cinquant’anni e ogni giorno, dalla mattina alla sera, a Oriocenter. «Qui c’è tutto quello che ci serve», ci avevano spiegato. Amicizie comprese, perché la coppia si è creata un microcosmo sociale in cui vive bene. Un’eccezione forse, eppure non stupisce: a Orio pare davvero di stare in una piccola città. Ed è questo il successo più grande di Antonio Percassi, l’uomo che ha creduto in una folle impresa trasformatasi in un’eccellenza nazionale e internazionale. Un’eccellenza che sabato 24 novembre ha compiuto vent’anni.

L’intervista al patron 

Percassi, ci riassuma questi due decenni di Oriocenter.

«Un’avventura fantastica, un successo incredibile».

Un successo in cui solo lei ha creduto, all’inizio.

«A sentire la gente, questo era un fallimento certo, un flop colossale, un buco nero. Invece…».

Invece?

«Invece abbiamo rivoluzionato il concetto di centro commerciale. In Italia, ma non solo. Oriocenter è osservato come un modello anche all’estero».

Qual è stato il segreto?

«Si ricorda com’erano i centri commerciali italiani vent’anni fa? Tutto su un piano, parcheggi a raso e via… Non c’era inventiva. Noi abbiamo avuto il coraggio di pensare in grande».

Dice noi, ma sarebbe più corretto dire lei…

(Sorride, ndr) «Io ho avuto l’idea, ma c’è stata tanta gente che mi ha aiutato nel trasformarla in realtà».

Qual è stata l’idea?

«All’epoca, quando uscivi da Bergamo ti trovavi davanti soltanto dei grandi nebbioni, soprattutto in inverno. Anche dall’aeroporto, che era ancora piccolo, diverse volte non partivano gli aerei per la nebbia. C’erano solo campi, nebbia e qualche fabbrica. E così mi immaginai quanto sarebbe stato bello creare un luogo che unisse l’aeroporto al commercio, che prendesse il posto di quei campi e di quella nebbia».

Ma allora l’aeroporto di Bergamo era davvero poca roba.

«Sì, ma era destinato naturalmente a crescere. Il potenziale era pazzesco, bastava compiere le scelte giuste, cosa che è stata fatta per fortuna».

Prima ha detto che tante persone l’hanno aiutata a realizzare il “sogno Oriocenter”. La prima chi fu?

«L’architetto francese Arnou, un mago dei centri commerciali. Avevo incontrato diversi architetti e molti mi avevano presentato progetti interessanti, ma non era quello che cercavo. Poi incontrai lui: parlammo un po’, gli spiegai quel che avevo in testa, e lui si presentò da me con un disegno e un plastico. “Spettacolare”, pensai. Era davvero qualcosa di rivoluzionario».

Cioè?

«Diverso, unico. Una “bestia” su più piani con quattromila parcheggi. Non a raso, ma scavati nel terreno. E che fosse un progetto eccezionale lo dimostra il fatto che Oriocenter, ancora oggi, è una struttura architettonicamente all’avanguardia nel settore. Dopo vent’anni, non è invecchiato per niente».

Chi altro l’ha aiutata?

«L’alto dirigente dell’allora Banca Provinciale Lombarda (oggi parte di Intesa, ndr) che finanziò il progetto. Il problema, infatti, era che nessuna banca locale voleva investire su Oriocenter».

Come mai?

(Allarga le braccia, ndr) «Un ragazzotto scende da Clusone e ti presenta un progetto di quel tipo, folle, mentre tutti attorno, i grandi – o presunti tali – industriali della Bergamasca dicevano che sarebbe stato un fallimento. Ovvio che non volevano rischiare».

E come ci è arrivato alla Banca Provinciale Lombarda?

«Un amico mi dice che lì lavorava un dirigente giovane e sveglio. Mi passa il numero e io lo chiamo. Fissiamo un appuntamento. Qualche giorno dopo ero nel suo ufficio con i disegni del progetto e una gran paura di sentirmi dire l’ennesimo no. Finita la presentazione, lui mi guarda e mi fa: “Ma sta scherzando, vero?”. Impallidisco. Faccio no con la testa e cerco di mettere insieme altre parole, ma lui mi ferma: “È un progetto fantastico. Finanziamo tutto noi”. Non ci potevo credere».

Cosa aveva di così unico questo progetto?

«All’estero avevo visto tanti centri commerciali. Erano di un altro pianeta rispetto ai nostri. Ma Oriocenter aggiungeva elementi in più. E poi, per l’epoca, era davvero enorme: un colosso di migliaia e migliaia di metri quadrati, con 180 negozi (che oggi sono diventati 280, ndr) e quattromila posti auto sottoterra. “Percassi, mica siamo a New York qui eh”, mi dicevano tutti».

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Una volta trovato il finanziatore, quale fu il passo successivo?

«Riempire la “scatola”. E la cosa più importante era trovare un partner affidabile per l’ipermercato, che doveva essere il volano dell’intero centro commerciale. Anche qui, le realtà locali si scansarono. Erano impaurite dalle dimensioni del progetto. Trovai aiuto in Francia, incredibilmente».

Perché incredibilmente?

«Be’, i francesi non è che siano poi tanto simpatici, in particolare con noi italiani… Per puro caso, però, l’allora amministratore delegato del colosso degli ipermercati francesi Continente era un italiano. Ci prendemmo in simpatia parlando di calcio e così gli chiesi se potevo presentargli il progetto. Mi accolse con tutto il suo team. Il fatto che a disegnare il centro fosse stato un francese mi aiutò, ma quando finii di raccontare tutto, c’era un silenzio glaciale. Nessuno fiatava, tutti mi fissavano. Furono i trenta secondi più lunghi della mia vita».

E poi?

«Alla fine parlò l’amministratore delegato. “C’è un problema: lì, all’ingresso, servirebbe un rondò”. E il resto?, chiesi. “Progetto stupendo, noi ci siamo”. Stringemmo l’accordo e vendemmo a Continente l’ipermercato».

E il resto dei negozi?

«In pochi mesi avevamo già pre-affittato tutto. A dimostrazione del fatto che chi lavorava nel campo del commercio intuiva il potenziale».

I lavori filarono via lisci?

«Sì, abbastanza. Ogni tanto guardavo i mezzi in movimento nel cantiere e mi dicevo: “Mamma mia, è davvero folle”. Però tutto è filato liscio. Almeno fino a due giorni prima dell’inaugurazione».

Perché?

«Qualche tempo dopo aver stretto l’accordo con noi, il gruppo Continente si fuse con Iper e la catena di ipermercati della famiglia Benetton. E decisero che a Oriocenter avrebbe aperto un Iper. Ecco, due giorni prima dell’inaugurazione quelli di Iper mi dissero che loro non avrebbero aperto».

Veramente?

«Sì, giuro. Secondo loro l’ingresso viabilistico al centro non era ben fatto».

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Non avevate fatto la rotonda che vi avevano consigliato?

«No, avevamo optato per un’altra soluzione. Ma lo sapevano, invece ce lo dissero solo a due giorni dall’apertura…».

Come la risolse?

«Furono ventiquattro ore di fuoco, mi persi anche il debutto in prima squadra di mio figlio Luca con la maglia del Chelsea. Alla fine arrivammo a una: serviva la rotonda».

E siete riusciti a farla in due giorni?

«Un giorno e mezzo per la precisione».

Poi però l’inaugurazione fu un successone.

«Sì, ma io avevo una paura pazzesca».

Perché?

«La sera del 23 novembre, a meno di dodici ore dall’apertura, venne giù una nevicata assurda. Ero sicuro che il giorno dopo non ci sarebbe stato nessuno. Non chiusi occhio e la mattina, prestissimo, decisi di salire a Clusone e di andare al cimitero a pregare. Alla fine non resistetti e poco dopo le 9, ora dell’inaugurazione, telefonai. Mi dissero che c’era coda sin dall’autostrada».

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Oriocenter quindi si potrebbe definire una scommessa? Sua e di chi ci ha creduto insieme a lei.

«Per certi versi sì. Perché c’era studio, convinzione, ma era una cosa talmente innovativa che non potevamo sapere come sarebbe andata».

Oggi, secondo lei, le banche sarebbero ancora disposte a investire in un progetto tanto folle?

«Secondo me sì. Certo, i tempi sono cambiati ed è molto più difficile progettare qualcosa di così innovativo».

Eppure voi state già pensando ai prossimi vent’anni, vero?

«Diciamo che c’è ancora tanto da fare, sicuramente. Il mondo, rispetto a vent’anni fa, è completamente cambiato. È cambiato il mercato, è cambiata la gente. Stiamo studiando, progettando. Bisogna essere davvero super innovativi. Serve la stessa visione quasi folle che abbiamo avuto nel 1998. In un contesto diverso, la stessa follia».

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