Incontro con Deborah Berini: "Scusa Italia, tolgo il disturbo, ma..."
Un viaggio nelle nuove generazioni pronte a "riconquistare quello che i nostri padri ci hanno lasciato in eredità".
Incontro con Deborah Berini: "Scusa Italia, tolgo il disturbo, ma...".
Incontro con Deborah Berini: "Scusa Italia, tolgo il disturbo, ma..."
Cronista in Libertà ancora una volta si presenta con una provocazione. Il Suo nome? È Deborah, 31 anni, che si presenta con la sua idea di un mondo senza frontiere e con una voglia di scoperta delle cose di questo mondo. Chiacchierata effervescente, attesa, voluta e piena di curiosità dopo quanto mi hanno raccontato Xenia e Marianna, di cui già abbiamo scritto, amiche della prima ora. Sì, amici di Cronista in Libertà, ogni intervista resta una scoperta, un catapultarsi nell'io dell'altro, pieno di meraviglie. A guidarmi come sempre è la coscienza di incontrare una persona unica: diversa da ogni altro "io" incontrato, con quel desiderio incredibilmente comune a tutti. Spiazzante desiderio della ricerca del giusto in ogni giustizia e di amata felicità.
Deborah, Stati Uniti, Australia, Londra....quando ti fermi?
Ho sempre amato viaggiare. Il semplice essere in movimento verso una nuova meta mi fa sentire viva perché il movimento porta inevitabilmente al cambiamento, alla scoperta del nuovo e del diverso, all’incontro con l’imprevisto. Molto spesso le persone che mi conoscono mi chiedono come faccio ogni volta che mi trasferisco ad affrontare l’incertezza, il fatto di non sapere cosa mi aspetta. La mia risposta è che quando nulla è certo, ecco che tutto può accadere. Non so cosa accadrà ma so che sarà indimenticabile, in ogni accezione del termine.
Ho 31 anni, non possiedo una macchina né una casa a mio nome. In sei anni ho vissuto in tre paesi differenti, nell’ultimo anno ho cambiato ben quattro lavori e un mese fa ho lasciato un tempo indeterminato come assistente infermiera per fare la babysitter. Molte persone della mia età dicono che sono matta ad aver lasciato il posto fisso; altri dell’età dei miei genitori pensano anche che a quest’ora avrei già dovuto essere sposata con figli. A tutti loro, però, voglio chiedere: siete davvero felici?
Lasciamo aperta la domanda e ripariamo dall'inizio
Dopo essermi laureata in Scienze dell’Educazione, spinta dal famoso “adesso o mai più”, ho deciso di lavorare come ragazza alla pari in una famiglia americana. In teoria avrei dovuto vivere per un anno intero con loro, prendendomi cura dei bambini come una sorella maggiore e approfittando dei vantaggi connessi: immersione totale in un paese con lingua e cultura diverse dalla mia. In pratica gli anni sono stati due e mezzo, più che una sorella maggiore sono stata un punto di riferimento quasi materno e l’arricchimento personale che ho ricevuto da questa esperienza è forse ciò che più reputo fondamentale nel mio percorso di accrescimento da ragazza a donna adulta.
Tornata in Italia ho avuto un profondo shock culturale: non sentivo di appartenere a questo vecchio mondo fatto di inefficienza burocratica e chiusura mentale, mi sentivo incompresa persino dagli amici di una vita e dalla mia stessa famiglia. Così ho fatto qualche ricerca e dopo pochi mesi avevo un biglietto aereo e un nuovo visto. Destinazione: Australia, alla ricerca della felicità apparentemente perduta.
Inutile dire che è stata un’esperienza totalmente diversa e altrettanto immensamente gratificante. Dopo aver vissuto in questi due paesi così diversi eppure così profondamente affini alla mia anima tutto è cambiato, o meglio io sono cambiata e di conseguenza il mio modo di vedere il mondo.
Potrei descrivervi nel dettaglio i luoghi meravigliosi in cui sono stata o raccontarvi delle persone fantastiche che ho incontrato ma non renderebbe giustizia alla profonda trasformazione che tutto ciò ha scatenato in me. La cosa più importante che ho imparato durante i miei viaggi è stata allenare l’occhio alla meraviglia. Piccoli dettagli appartenenti alla vita quotidiana, inizialmente nuovi ai miei occhi ma che oggi continuano a farmi innamorare ogni giorno. Come i commessi che ti imbustano la spesa e ti parlano della loro giornata, i tramonti sull’oceano, parlare con uno sconosciuto in fila al bar e ritrovarsi a una festa a casa sua la sera stessa. Le luci di natale per le vie di New York nonostante il freddo che ti taglia la pelle, il raggio di sole che sbuca ogni cinque minuti di pioggia a Londra. Ho imparato ad apprezzare ogni dettaglio seppur piccolo e ad innamorami delle piccole gioie quotidiane. Vedere il mondo ogni giorno con occhi nuovi è forse la ricetta per essere felici.
Felicità… Hai scoperto la ricetta?
Essere felici per me, però, è anche rendersi conto di quanto sono speciale in quanto persona con dei valori culturali unici, e per questo ringrazio i miei genitori e la tradizione italiana. Da quando ho iniziato a vivere all’estero ho lavorato principalmente come nanny, ruolo molto simile a quello da ragazza alla pari e a quella che in Italia viene comunemente chiamata babysitter. Questa figura, che nel nostro paese viene richiesta sporadicamente per poche ore dopo la scuola o una sera ogni tanto, è estremamente valorizzata all’estero tanto da essere pagata di più di un qualsiasi lavoro nella ristorazione.
Ciò che inizialmente trovavo impossibile, come ad esempio una mamma che chiede a me di mettere a letto i suoi figli perché stanca, ha iniziato ad avere maggior senso relazionato alla loro cultura una volta che ho iniziato a condividere questi piccoli episodi con altre ragazze italiane nella mia stessa situazione. I punti erano simili se non identici: noi, non ancora mamme, riuscivamo ad accudire i bambini attraverso un mix di educazione ed affetto insito nella nostra tradizione culturale familiare italiana, e di conseguenza in noi attraverso le generazioni, con il risultato che i bambini ci vedevano come figura di riferimento genitoriale.
Ciò che per noi italiani risulta naturale, per alcune culture viene visto come qualcosa di estremamente difficile da interiorizzare e mettere in pratica senza l’intervento di una figura esterna. Persone appartenenti a culture non così differenti dalla nostra eppure a cui mancano gli strumenti necessari per affrontare il lavoro di essere genitore delegandolo ad una persona che non fa parte del nucleo familiare. Ed ecco come mi sono resa conto di quanto la nostra tradizione culturale familiare sia invidiata dagli altri ma soprattutto quanto sia sottovalutata da noi italiani in primis. Più di ogni altra cosa ho realizzato che questa tradizione, all’estero, è vista come un dono, qualcosa di unico e raro che in campo lavorativo si traduce in valore aggiunto.
Domanda e ti sarà dato.
Vorrei chiedere l’abolizione dei confini. Non tanto in senso geografico ma in principalmente in senso burocratico. Permettere a persone di ogni nazionalità di poter viaggiare e lavorare in qualunque Stato senza restrizioni di visto o permesso di soggiorno. Credo fermamente che viaggiare sia essenziale per poter scoprire sé stessi e fondamentale nel riconoscere i punti di forza della propria tradizione e quelli di altre culture così da poterli eventualmente incorporare nella propria.
Viaggiare è un po’ come rinascere. Ti ritrovi in un mondo che non conosci, circondata da estranei che parlano una lingua a te sconosciuta e che spesso agiscono in modi a te incomprensibili. Come un neonato devi imparare una nuova lingua, interiorizzare una nuova cultura. Ogni volta che viaggi rinasci: molto spesso vivi un’avventura differente da quella precedente, quasi sempre sei tu a ritrovarti differente.
Italia, cosa ti sta più stretto?
La mentalità ristretta, la lentezza burocratica e l’inefficienza anche nelle più piccole cose. Vivendo all’estero mi sono imbattuta in molti dei pregiudizi connessi al modo e mondo in cui sono stata cresciuta, meravigliandomi di come in altri paesi più multiculturali del nostro i bambini non fanno mai riferimento al fatto che qualche loro compagno di scuola ha la pelle di colore differente oppure che ha due papà o due mamme. Questo è un fattore che mi colpisce ancora profondamente, il fatto di non vedere la discriminazione a cui ero invece abituata ad assistere in Italia.
A questo aggiungi il costante sentimento di frustrazione dovuto ad un sistema burocratico lento e che non funziona correttamente. Abituata a non dover più andare in banca o in posta perché tutto gestibile tramite telefono, tornare in Italia è stato come tornare a vivere nel medioevo. Quando racconto che carico un assegno sul conto corrente senza nemmeno uscire di casa, pago con il bancomat anche solo una caramella e ricarico il telefono in ogni bar o luogo pubblico i miei amici pensano che parlo di un ipotetico film futuristico.
L’Italia mi sta stretta perché non è a misura di noi giovani, non riesce a stare al passo con i tempi e di conseguenza risulta un paese datato e poco funzionale. Proprio come il nuovo modello di un telefono cellulare, così è vivere in un paese leggermente più avanzato dell’Italia: una volta che vedi la differenza, è difficile tornare indietro.
Tornare indietro? Avanti tutta! Deborah porta sempre l'idea di famiglia di "casa sua", di una cultura contro ogni forma di abbandono o di delega alla responsabilità. Famiglia con il suo ritrovarsi in una compagnia piena di vicinanza e condivisione. Ecco l'ideale farsi avanti, non disperdere un patrimonio che i nostri padri hanno costruito, punto di partenza e di arrivo di una nuova umanità. Deborah cosa cerchi dalla vita? Senza esitare mi hai risposto: "cerco la felicità". Sembrerebbe scontato ma non è così! Lei per questo si è messa in moto, si guarda intorno, bussa e domanda. Continua a cercare, Deborah, sino agli estremi confini dell'universo, anche se un giorno dovessi tornare da dove sei partita. Buon viaggio! Per meglio farti questo augurio, chiedo in prestito una citazione di Walt Whitman : "Lascia che l'anima rimanga fiera e composta di fronte ad un milione di universi”.
CronistaINLibertà
a cura di Renato Caporale
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