Editoriale | Il Coronavirus e quel silenzio...

Oggi voglio parlarvi di questo, perchè davvero non riesco ad abituarmici.

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Editoriale | Il Coronavirus e quel silenzio...

CORSICO - Oggi voglio parlarvi di questo, perchè davvero non riesco ad abituarmici: il silenzio. Esco sul balcone per il mio viziaccio (a proposito, sto cercando di rendere fruttuosa la quarantena: sempre più spesso sto uscendo a “svapare”, sostituendo ai cancerogeni un dispositivo al 95% meno dannoso) e in molte ore della giornata sento... il nulla.

Dove vivo

Devo inquadrare la mia posizione geografica: vivo a Corsico, in un palazzo di 7 piani (su due scale) che affaccia su altri palazzi da 4-5 piani (vabbè, lo vedete in foto). Non c’è mai silenzio, c’è ad ogni ora del giorno e della notte “socialità” tra i vicini ed i negozi sotto casa (rimpiango addirittura le litigate in zona pizzeria). Esco per la stizza dopo cena, verso le 21.30, e sento...

Cosa sento? Il niente.

Più o meno in lontananza, il suono di una sirena (ormai non capisco più quanto sia un suono costantemente nella mente oppure reale), a spezzare il vuoto sonoro con quelle due o tre note angoscianti. Il rumore di un’auto, di sera, è davvero un evento eccezionale, mentre di solito è un rumore di fondo che si percepisce costantemente nell’arco della giornata.

Il "non rumore"

In parte mi rincuora questo “non rumore”: forse la gente ha davvero capito, forse se ne sta a casa. In realtà qualcuno in giro c’è anche, e le persone non credo vadano a letto alle 21; però c’è un silenzio irreale, che racconta molto della Corsico, della Lombardia di questi giorni. È il suono della paura, del rispetto per chi soffre, del dolore, della morte, dell’angoscia costante. Nei momenti di
difficoltà arriva un momento in cui è giusto fare silenzio, diventa quasi un riflesso automatico per l’uomo.

Il mondo fuori casa

Lo stesso avviene nei brevi e necessari tragitti fuori casa (di autocertificato munito, pur muovendomi in bicicletta in un arco di 3-400 metri con la sciarpa a coprirmi dai colpi d’aria più che dal virus). Poche persone in giro (ovviamente non parlo dei supermercati, lì per scelta non ci metterò piede finché potrò arrangiarmi diversamente), tutti parlano come se fossimo in chiesa, ci si guarda, se vogliamo, con un’aria un po’ smarrita. Non la leggo come diffidenza, no, ma più un misto di angoscia, paura ed esigenza di tutelarsi. Nel week end scorso, a partire da venerdì, ci sono stati dei break dal silenzio: i flash mob musicali, plaudenti, canori, luminosi.

I flash mob dello scorso week end

Molti si sono scagliati giudicando irrispettosi questi gesti. Io li ho osservati a distanza (sono una persona timida, non riesco a tuffarmi negli eventi con sconosciuti, concerti e partite di basket a parte) e ci ho visto la voglia di abbracciarsi, come cittadini di uno stesso mondo, senza confini. E la cosa mi ha commosso profondamente.

Le emozioni

Capita anche a voi la lacrima facile in questi giorni? A me tantissimo. Mi commuovo leggendo testimonianze, guardando alcuni video, a volte anche scrivendo i numeri quotidiani del “bollettino di guerra”. Non riesco a vivere con il dovuto distacco il lavoro, mi angoscio (più o meno) nell’arco della giornata in base a quello che raccontiamo. Non è professionale? È umano, e questo mi basta.

Un mondo nuovo

Ecco, in questa pseudo auto-analisi che ormai procede da un mese, mi sono reso conto di una cosa su tutto: la tragedia che stiamo vivendo cambierà il mondo, o per lo meno il mio, il nostro. Sono una persona che, di natura, per semplificare, tende a respingere, non accettare, non accogliere le emozioni. Le vuole anestetizzare, quasi fossero un brutto male. Le emozioni, in un evento del genere sono “inarginabili” e questo è un bene che, pur nel male, mi ha cambiato. In positivo.

Voglio e auguro a tutti noi di riempire questo silenzio al più presto con un’altra grossa carenza: i sorrisi. E la voglia di abbracciarci, tutti quanti, come parte della stessa meravigliosa e difficile storia: la vita.

Andrea Demarchi

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