Capita a tutti, prima o poi, di sentire una spinta interiore difficile da definire: qualcosa che ci orienta, ci mette in movimento, ci fa desiderare o temere senza che ci sia per forza una spiegazione immediata. Quando parliamo di pulsione, parliamo proprio di questo: di quel moto interno che nasce nel corpo, prende forma nella mente e finisce per influenzare il modo in cui viviamo e ci relazioniamo. Freud ne diede una delle prime definizioni, poi rielaborata nel tempo, ma l’idea di fondo rimane sorprendentemente semplice e vicina alla nostra esperienza quotidiana: dentro ognuno di noi esiste un’energia che chiede di essere ascoltata. Non è un concetto astratto, lontano dalla vita reale; è una corrente sotterranea che a volte sussurra e altre volte spinge con forza, rivelando bisogni, desideri e parti di noi che stanno cercando un linguaggio per emergere.
La pulsione nella pratica clinica
Nella stanza di terapia la pulsione non arriva mai come una teoria: arriva nei gesti, nei racconti che tornano ciclici, nei silenzi che pesano, nelle scelte che sembrano ripetersi senza volerlo. Gli autori psicodinamici hanno descritto bene come, quando una pulsione non trova un luogo sicuro in cui essere riconosciuta, possa trasformarsi in tensione, irritabilità, impulsività o in tentativi di autocontrollo eccessivo. Il problema non è la pulsione, ma il fatto che spesso non sappiamo come starle vicino. Qui il ruolo dello psicologo diventa fondamentale: offrire uno spazio che non giudica, in cui quelle spinte possano essere accolte, esplorate e comprese.
Mentalizzazione e regolazione delle spinte interiori
La ricerca sulla mentalizzazione mostra quanto sia importante riuscire a dare un significato a ciò che ci accade dentro. Quando riusciamo a trasformare un impulso in un pensiero, la sensazione cambia: ciò che prima appariva minaccioso o incontrollabile diventa qualcosa con cui possiamo dialogare. È un passaggio che restituisce libertà, perché ci permette di scegliere invece di reagire automaticamente. Quando questa capacità si indebolisce, gli impulsi possono presentarsi in modo più diretto, più urgente, più difficile da contenere, portandoci verso comportamenti che non sempre sentiamo davvero nostri. Dare un nome a ciò che proviamo diventa allora un vero atto di cura verso noi stessi.
Il lavoro terapeutico come spazio di integrazione
Laplanche e Pontalis, nei loro scritti, ricordano che la pulsione è prima di tutto una forza vitale, qualcosa che appartiene profondamente all’essere umano. Ma è nella pratica clinica che questa idea diventa tangibile: la pulsione viene trattata come qualcosa di prezioso, da maneggiare con delicatezza. In terapia, la persona impara poco alla volta ad ascoltare ciò che sente senza temerlo, a trovare un equilibrio possibile tra i propri bisogni e le richieste del mondo esterno. Quando questo processo prende forma, la pulsione non è più un peso o un ostacolo: diventa una bussola interna, un richiamo verso parti autentiche di sé. E da questa ritrovata connessione nascono relazioni più libere, più sincere e soprattutto più aderenti al proprio modo unico di stare al mondo.
Dott. Fabiano Foschini
Psicologo
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