“Innanzitutto volevo ringraziare di cuore Massimo per questa intervista e per le parole sempre gentili che ha avuto nei miei confronti. È un piacere e un onore poter condividere qualche pensiero sul mio percorso e su ciò che continuo ad amare ogni giorno: il basket e i suoi valori più veri”.
Intervista a Alessandro Bertolazzi
ASSAGO – Apre così, la sua intervista, Alessandro Bertolazzi, dottore in Scienze Motorie e allenatore ad Assago e Milano 3
Caro Alessandro, ho sempre considerato un privilegio vederti giocare ed in qualche occasione allenarti. Quanto è ancora bello allenare i piccoli e vederli correre, saltare, difendere e fare canestro?
Allenare i piccoli è una delle cose più belle che ci siano. Ogni volta che entro in palestra ritrovo l’entusiasmo che avevo da bambino, quando ho iniziato a giocare con la Cestistica Assago – società che per me è come una seconda famiglia fin da quando avevo cinque anni. Vederli correre, ridere, sbagliare e poi riuscire, mi ricorda quanto lo sport sia una palestra di vita: insegna a condividere, a rispettare, a cadere e rialzarsi. Dal punto di vista educativo è un modo per aiutarli a crescere, a scoprire le proprie capacità e a costruire legami sinceri attraverso il gioco.
La tua formazione universitaria è centrata sulla prevenzione nel campo sportivo. Quanto è importante la cultura e la consapevolezza della prevenzione nel Basket professionistico e dilettantistico?
È la priorità assoluta. La mia formazione universitaria è centrata proprio su questo aspetto: la prevenzione non è un optional, è l’investimento più importante che possiamo fare. Nel professionismo salva le carriere; nel dilettantismo, assicura che il bambino cresca bene e possa godersi lo sport per anni senza farsi male. Dobbiamo insegnare ai ragazzi a conoscere e rispettare il proprio corpo fin da piccoli.
Sei anche istruttore regionale minibasket da oltre un decennio; nella fascia da 5-11 anni nascono e si iniziano a sviluppare passione e fondamentali della pallacanestro. Quanti “Alessandro Bertolazzi piccolo” hai trovato nelle palestre di Assago e Milano 3?
In realtà non cerco “piccoli me”, anche se, lo ammetto, mi piace pensare di averne davanti uno ogni tanto. Ogni anno conosco tanti bambini nuovi, ognuno con la sua personalità, il suo modo di vivere il gioco e di emozionarsi. La mia attenzione è sui bambini che si accendono quando vedono entrare la palla nel canestro o quando si aiutano a vicenda in campo. È in questi momenti che si costruiscono le basi tecniche, ma soprattutto nasce e si sviluppa la passione per la pallacanestro. Il mio obiettivo è farli divertire imparando, come hanno fatto con me gli istruttori che mi hanno fatto
innamorare di questo sport. Se poi qualcuno continuerà nel basket, tanto meglio. Ma la cosa più bella è vederli tornare in palestra con la voglia di imparare cose nuove.

Competizione ed inclusione sono a volte facce differenti di una unica medaglia: cosa si dovrebbe fare in più per coltivare talenti ed anche per consentire ad ogni abilità di divertirsi con il basket?
Credo che si debba lavorare di più sulla personalizzazione del percorso di ogni bambino. Ognuno ha tempi, motivazioni e capacità diverse: l’importante è saperle riconoscere e valorizzare. Per coltivare i talenti serve proporre stimoli adeguati, che li facciano crescere senza metterli su un piedistallo. Allo stesso tempo, bisogna dare a tutti la possibilità di divertirsi, di sentirsi parte del gruppo e di trovare soddisfazione nei propri progressi. Il basket deve restare un gioco che accoglie, dove chi ha più talento trascina gli altri e chi ha più difficoltà trova sostegno. Quando in palestra si respira questo equilibrio, crescono sia i giocatori che le persone.
Conosco abbastanza bene lo storico gruppo di Assago in cui giocavi e che spesso raggiungeva o vinceva finali incredibili: ricorda per i nostri lettori una finale che hai sempre nel cuore
Una delle finali che porto più nel cuore è quella dell’AJ Cup, vinta con la Cestistica Assago contro Bollate nella categoria Under 15, giocata al Palalido, ex casa dell’Olimpia Milano. Fu una partita intensa, combattuta fino all’ultimo, che riuscimmo a vincere grazie a un grande spirito di squadra. In quella gara venni anche premiato come MVP della finale. Però il ricordo più bello non è il premio in sé: è l’emozione di aver condiviso quel momento con un gruppo di compagni con cui ero cresciuto, dentro e fuori dal campo. È una di quelle partite che ti fanno capire quanto contino l’amicizia, la fiducia reciproca e il senso di appartenenza.
Da cosa si può riconoscere le qualità di un istruttore del Minibasket quando lavora in palestra?
Le qualità di un istruttore si riconoscono da come sta in palestra con i bambini. Può conoscere tutti i fondamentali del basket, ma se non sa creare un clima positivo e farli sentire a proprio agio, manca qualcosa. Un buon istruttore sa ascoltare, sa adattarsi ai tempi dei bambini e soprattutto sa trasmettere entusiasmo. Deve saper guidare senza imporsi, farli divertire e aiutarli a credere in sé stessi.
Cosa raccomandi ai genitori dei tuoi mini-atleti quando seguono le partite delle tue squadre?
Ai genitori chiedo di godersi la partita con serenità, sostenendo i bambini senza pressioni. Gli errori fanno parte del gioco e vanno accolti con un sorriso. È importante anche che evitino di fare da allenatori da bordo campo: il mio compito è guidare i ragazzi, il loro è godersi lo spettacolo e mantenere un clima sereno. Il tifo positivo e il rispetto per tutti, compagni, avversari e arbitri, sono il modo migliore per aiutarli a crescere e a continuare ad amare il basket.
Quasi sempre abbiamo cose da imparare, ogni volta che inizia una stagione sportiva. Cosa noti, o vorresti copiare, da altre discipline sportive di squadra per migliorare il mondo del Basket locale ed Italiano?
Mi piace molto la cultura del gruppo che vedo nel rugby. C’è un grande senso di appartenenza e di rispetto, sia tra compagni che verso gli avversari.
Penso di saperlo, ma quale persona ti senti di ringraziare tra i primi per averti aiutato ad essere un bravissimo atleta ed un super istruttore?
Il primo pensiero va al mio vecchio coach, Luca Garito. È stato il mio allenatore da quando avevo cinque anni fino ai venti, e con lui ho condiviso praticamente tutta la mia crescita cestistica e personale. Mi ha trasmesso l’amore per il basket, la cura per i dettagli e il valore del rispetto dentro e fuori dal campo. Ancora oggi, molte delle cose che cerco di insegnare ai miei ragazzi nascono da quello che ho imparato osservandolo e ascoltandolo in palestra. È una figura che porterò sempre con me, come riferimento e come esempio di cosa significa davvero educare attraverso lo sport.
Intervista a cura di Massimo Biadigo